A modo mio! Decidere come vivere quando si sa di non avere più molto da vivere

Robert Muller ha 28 anni e un tumore al cervello che non gli lascerà più di sette settimane di vita. Ma lui vuole tornare sul campo di hockey per giocare con la sua squadra di club e la nazionale del suo Paese, la Germania.
Hannah Jones invece di anni ne ha 13 e un fisico già minato da una forma rara e grave di leucemia che non le permetterà di vivere ancora per molto se non si sottoporrà a un trapianto di cuore, eppure è riuscita a convincere i medici a desistere dall'azione legale che avevano avviato contro questa sua decisione, per trascorrere i suoi ultimi giorni con i suoi amici e familiari.

Due giovani, due percorsi di vita e due malattie molto diverse, ma un unico tragico destino e soprattutto la stessa caparbietà nel voler decidere come vivere quello che resta loro davanti.

In questi casi la ragione impedirebbe a Robert di rimettere piede su un campo perché su quel campo potrebbe morirci e obbligherebbe Hannah, che oltretutto è minorenne, a sottoporsi all'intervento, magari non risolutivo ma sempre la speranza di una vita un po' più lunga.
Ma può la medicina riportare sempre tutto alla ragione o qualche volta deve inchinarsi anche lei alle ragioni del cuore?
Le stesse ragioni che spingono Robert a vivere per quel che gli resta, come ha sempre vissuto: giocando a hockey. "Non ho dolori e mi sento bene – ha spiegato -, devo soltanto convivere con il tumore. Non mi resta che essere positivo, perché tanto la mia situazione non cambierebbe. Chiedo di essere trattato come tutti gli altri, non voglio essere compatito". Il suo non è un capriccio o una negazione della malattia, sembra più una consapevolezza maturata nel lungo calvario che lo ha portato fin qui. Muller ha scoperto di essere malato due anni fa, quando uscì da un match di Coppa di Germania in seguito a un malore. Il tumore venne parzialmente estirpato e lui poté tornare nel suo ruolo di portiere dopo soli tre mesi. Poi cambiò due club prima di approdare a Colonia, nella squadra dei Kolner Haie, con cui si è conquistato un posto nella nazionale tedesca impegnata a maggio nei Mondiali in Canada. Quest'estate il peggioramento e la necessità di un'altra operazione che però non è bastata, e ora i medici si sono arresi pronunciando una diagnosi che suona come una condanna a morte: sette settimane di vita. Per i medici è già stato "fortunato", come ha spiegato al settimanale Der Spiegel il dottor Wolfgang Wick, oncologo della clinica universitaria di Heidelberg che segue il caso dell'atleta:"Robert ha superato la media di sopravvivenza per questo tipo di tumori, perché la maggior parte dei pazienti non arriva a vivere un anno e solo il 3% resta in vita fino a cinque anni dalla diagnosi".

Anche quello di Hannah, che pure è una bambina, non sembra un capriccio, ma l'esito di un lungo percorso interiore con la malattia come compagna. Lei aveva solo 5 anni quando le fu diagnosticata la leucemia e tra i tanti farmaci che ha dovuto assumere, uno le ha distrutto il cuore tanto che ora solo un trapianto potrebbe rimediare. Hannah invece ha detto basta, ritenendo questo intervento troppo rischioso e senza reali prospettive di guarigione. Col cuore nuovo guadagnerebbe altri 10 anni di vita nella migliore delle ipotesi, dovendo assumere costantemente farmaci che paradossalmente potrebbero portare a una recidiva del tumore sconfitto, ma col concreto rischio di non sopravvivere all'intervento. Hannah vuole vivere a modo suo i giorni che le restano e il Tribunale dei minori l'ha ascoltata è ha convinto l'ospedale presso cui è in cura a desistere dal continuare l'azione legale contro lei e i suoi genitori. "Non so cosa abbia detto ai giudici – ha spiegato il padre – ma deve essere stato talmente convincente da farli recedere e noi siamo orgogliosi della nostra piccola".

La medicina deve agire nell'interesse del paziente, anche o soprattutto quando non c'è più molta speranza di vita. È l'eterno dilemma di medici e familiari: lasciar vivere in pace per quello che rimane o prolungare il più possibile un'esistenza al prezzo di una drastica riduzione della qualità della vita? I pazienti, invece, non hanno quasi mai dubbi, specie se arrivano al bivio dopo un percorso lungo e tormentato: meglio poco tempo, ma facendo quello che li rende più felici e in compagnia delle persone che amano. Per sentirsi normali almeno nel tempo che resta.
Non chiedono il miracolo di una guarigione impossibile: pretendono che li si lasci esercitare il loro diritto ad essere felici. La loro felicità però è un concetto difficilmente comprensibile per gli altri perché frutto di un riordino e di una rielaborazione interiore  delle priorità di vita.

Sono del parere che, se le decisioni del paziente non sono dettate dalla disperazione conseguente alla malattia, non c'è ragione per continuare a insistere con interventi che evidentemente non vanno più nell'interesse del paziente. Dopo attenta valutazione che escluda la presenza di una concreta possibilità di miglioramento e/o guarigione e soprattutto la presenza di una patologia mentale in grado di alterare la capacità di intendere e volere per sé, credo sia lecito lasciare al paziente la decisione di cosa sia meglio per lui.

Nel caso di Robert non ci sono dubbi: i medici sanno di non poter far nulla per allungargli la vita e quindi perché non lasciarlo tornare sulle piste se è quello che lo rende felice?! Per Hannah invece il discorso è più complesso, primo perché c'è un'alternativa medica e secondo perché è una bambina di cui bisogna valutare anche la maturità mentale e la capacità di prendere decisioni in modo davvero autonomo comprendendone le conseguenze. Non ho abbastanza elementi per giudicare, ma se alla fine giudici e medici si sono convinti a lasciarla tornare a casa tra l'affetto dei suoi, allora forse è giusto così.

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