Arte e cultura per umanizzare gli ospedali: appello dal MIA Fair

Fotografia e video ma non solo: al Milan Image Art Fair c’è spazio per parlare anche di arte e cultura come strumenti per umanizzare i percorsi di cura. “Come Umanizzare gli ospedali attraverso l’arte” è stato infatti il tema della Tavola rotonda che ha impegnato il critico e presentatore Philippe Daverio, l’assessore alla cultura di Milano Stefano Boeri e il direttore dipartimento chirurgia dell’istituto nazionale tumori Ugo Pastorino. Tra proposte e rimpianti ecco cosa è emerso.

Nella sala conferenze del Padiglione Moda di via Tortona, il dibattito parte da lontano, con gli esempi e le evoluzioni degli ospedali italiani ed europei nella storia. Come l’ospedale Santa Maria della Scala di Siena, chiuso nel ‘95, che nel suo Pellegrinaio oltre ai malati ospitava tra i più importanti affreschi del Quattrocento toscano: fu modello per il Santo Spirito di Roma e il Niguarda Ca’ Granda di Milano, i primi a fare un passo avanti nel rapporto tra malato e medico.

Un passo che, secondo Stefano Boeri, è stato ed è fondamentale: la risposta a un miglioramento della qualità della vita dei pazienti che passano molto tempo in ospedale e da cui “non si esce mai con tristezza“, come puntualizza Daverio, per l’assessore “potrebbero essere gli spazi per l’arte e la cultura, libri e teatro; il rapporto diretto con la luce e con lo scorrere del tempo, con il colore, e ancora il rapporto con la bellezza e con la contemplazione“.

Peccato che non siamo stati capaci di andare oltre il modello, di diventare, insomma, maestri per noi stessi. “Siamo disperati nel vedere gli ospedali di Londra o di Parigi fantastici rispetto ai nostri, forse perché proprio gli italiani sono stati i primi a portarvi quest’idea di bellezza“, ha commentato Daverio, catturando subito l’attenzione e i favori del pubblico che, a fine incontro, ha potuto intervenire a sua volta con domande e suggerimenti. Gli spunti di riflessione più utili sono emersi infatti dal confronto aperto.

E i dubbi si sono spostati, inevitabilmente, sull’aspetto economico che, abbiamo ormai nella testa come un chiodo fisso. Non che dovrebbe essere altrimenti: quello dei fondi per la sanità e il welfare è un problema che diventa sempre più pregnante e che la nuova scure di tagli non risolverà senz’altro. Ma come trovare i soldi anche per questo tipo di integrazione artistica alle cure, se non ci sono più fondi sufficienti nemmeno per i servizi base di un ospedale? Chi può stanziare fondi per invogliare gli artisti a portare la loro arte nei reparti? I privati? O forse gli artisti, cedendo le loro opere senza aspettarsi compenso se non la soddisfazione di aver contribuito al benessere dei meno fortunati?

IL DIBATTITO CONTINUA SUL WEB. “È avvilente leggere che questa domanda sia stata posta“, scrive Luciano G. Gerini, nel commentare la notizia dell’incontro riportata da Artribune. Scagliarsi indignati contro di lui dicendo che lo Stato e gli enti pubblici dovrebbero smetterla di pretendere regali e prestazioni volontarie gratuite dai singoli cittadini, visto che di tasse per mantenere welfare e servizi ne paghiamo fin troppe. Se non fosse che Gerini è un’artista e che, per di più, sa quel che dice. “Quattro anni fa – racconta – venne realizzato a Bangkok un nuovo pensionato per anziani non abbienti l’architetto che si occupò della realizzazione e dell’arredamento mi contattò perché avrebbe desiderato acquistare alcuni miei lavori per esporli nel pensionato. Mi disse però che il budget di cui disponeva era molto limitato. Contattai alcuni amici ed il pensionato ottenne 50 lavori (dei quali 7 miei) senza spendere nulla e, su richiesta degli artisti, poté destinare la quota di budget prevista per le opere d’arte all’acquisto di attrezzature per lo svago e per il relax.” “Ognuno di noi ha desiderio e talvolta “necessità” di “vendere”– aggiunge – Ma è possibile che di fronte alla possibilità di dare un po’ di gioia o almeno di serenità con il proprio lavoro l’unica domanda sia “… già ma chi paga?

Credo che non si possa generalizzare. Come dice anche Gerini “c’è chi ha la necessità di essere pagato” e in  effetti la cosa migliore sarebbe lasciare che ognuno contribuisca con la gratuità nella misura in cui può e si sente. La generosità non può essere né imposta né pretesa, perché a rimetterci sarebbe solo la dignità delle persone a cui il gesto è diretto. Vorrei  far notare inoltre che a volte ricompensare le persone per la loro professionalità potrebbe garantire una miglior qualità del servizio, più accurato, più celere e più personalizzato. Poi la decisione di quanto debba essere questo compenso deve spettare solo all’artista e al committente che possono anche mettersi d’accordo su una cifra simbolica, purché non sia gratis. Gratis mi infastidisce e mi preoccupa. C’è solo uno scambio unilaterale in cui uno dà e l’altro prende, ma si perde il valore dell’opera e il senso del gesto di chi l’ha realizzata.

E voi, cosa ne pensate?

Intanto che ci pensate potreste sfogliare il libro segnalato Still aLive – 33 storie di chi ha vissuto e vinto la lotta contro il cancro (Skira, 2010), di Giuseppe Maraniello e Ugo Pastorino, che testimonia di 33 casi clinici avvicinati attraverso l’obiettivo di 23 fotografi, intenti a interpretare il dramma della malattia.

Nella foto un’opera esposta in permanenza al Chelsea and Westminster Hospital di Londra.

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