Atleti dal cuore fragile: i casi Knapp e Del Core

Negli ultimi tempi diversi atleti sono stati fermati dai medici per problemi cardiaci come Lilian Thuram o le nostre Karin Knapp e Antonella Del Core, tanto per ricordare i più recenti e noti.

Ma che sta succedendo agli atleti? Possibile che l’idea di atleta che sprizza salute da tutti i pori sia ben lontana dalla verità? Che ci siano così tanti giovani e per di più atleti di livello, quindi allenati e controllati regolarmente da specialisti, con problemi di cuore, l’organo che più di ogni altro è ritenuto il maggior beneficiario dell’attività fisica?

In medicina quando si verifica un aumento statisticamente significativo del numero di casi di una stessa malattia si prospettano due possibilità: è comparso o si è rafforzato un fattore causale per quella malattia e allora l’aumento di casi è reale, oppure sono aumentati i controlli o migliorate le tecniche diagnostiche per cui casi che prima passavano inosservati ora vengono rilevati determinando un aumento che però è fittizio.

Per dirimere il dubbio tra questi due estremi è importante anche cercare di capire se i casi hanno qualcosa in comune. I tre atleti citati, almeno all’apparenza non hanno nulla che li accomuni: sesso ed età diversa, squadre ma soprattutto sport diversi (calcio per Thuram, tennis per la Knapp e pallavolo per la Del Core).

Guardando meglio però una cosa in comune l’hanno: a tutti e tre il problema è stato rilevato non in un controllo di routine ma in corso di approfondite visite “straordinarie”. Thuram stava facendo i test per entrare a far parte del Paris Saint German, mentre Knapp e Del Core sono state fermate dai medici del Coni nel corso delle visite disposte dal Cio per tutti gli atleti che non le hanno ritenute idonee per gli imminenti giochi olimpici, lasciando ad ulteriori indagini e commissioni il compito di capire se potranno continuare a giocare e a che livello.
Non conoscendo l’esatto problema cardiaco dei tre atleti è difficile fare considerazione ad personam, tuttavia un discorso generale si può di sicuro tentare. Innanzitutto c’è da chiedersi se non sia stato un eccesso di zelo fermare questi sportivi, oltretutto in momenti importanti della loro carriera. Possibile, si chiede qualcuno, che nessuno si sia accorto prima dell’esistenza di problemi? Possibile che siano comparsi così all’improvviso? Per Thuram queste illazioni hanno fatto giurare e spergiurare i responsabili dello staff medico della Juventus nel quale ha militato per anni che quando giocava da loro non gli era mai stato riscontrato alcun problema di salute, ma trattandosi di una malformazione che, come ha detto il giocatore, potrebbe essere familiare, è difficile pensare che sia comparsa dopo. Che i medici della Juventus non avessero gli strumenti o le competenze per vederla? Probabilmente non lo sapremo mai e comunque, umanamente parlando, l’unica cosa che ora conta è capire se c’è davvero e cosa si può eventualmente fare, se può tornare a giocare o deve evitarlo in modo assoluto.

Certo, sarebbe bello poter pensare che si stia esagerando e che per un nonnulla si sia agito con eccessiva prudenza. Vorrebbe dire che dopo ulteriori controlli questi atleti potrebbero tornare a giocare pur col dispiacere di aver perso occasioni importanti.
Purtroppo, anche se fosse davvero eccesso di zelo, non me la sento di condannare i medici: le statistiche dicono che con la salute degli atleti e soprattutto con quella del loro cuore non si può scherzare.

Nei giorni scorsi il British Medical Journal, una delle più note e diffuse riviste mediche internazionali, ha colto l’occasione dei Giochi olimpici che inizieranno tra meno di un mese per parlare di salute degli atleti e in particolare dei rischi a cui vanno incontro nel corso della loro attività e i problemi cardiaci erano in cima alla lista.

La morte cardiaca improvvisa è infatti l’evento più drammatico che possa accadere ad un atleta e oltre alla giovane età, alla fama e al fatto che abbiano dedicato tutta la vita all’attività sportiva, l’aspetto che sconvolge di più conoscenti e opinione pubblica e l’assoluta mancanza di segni o sintomi che potessero far presagire l’esistenza di un problema di salute.

Molti sono gli studi, fatti o ancora in corso, che cercano di chiarire come individuare gli atleti a rischio. È noto che i casi di morte improvvisa anche in assenza di sintomatologia, sono legati ad alcune anomalie cardiovascolari principali: la cardiomiopatia ipertrofica, le anomalie congenite delle arterie coronarie, l’aneurisma dissecante dell’aorta in soggetti affetti dalla sindrome di Marfan, la stenosi congenita della valvola che conduce all’aorta. Insomma i segni ci sarebbero e basterebbe saperli identificare.

Tuttavia, oltre a queste alterazioni cardiache, che possono essere congenite o acquisite per altri motivi, il cuore degli atleti subisce una serie di modificazioni proprio in conseguenza dell’intensa attività fisica che in questi particolari casi devono pertanto essere considerate fisiologiche. Per esempio il loro cuore è ipertrofico rispetto a quello delle persone normali, per via dell’adattamento dell’organo alla condizione di intenso lavoro a cui è sottoposto per riuscire a pompare la quantità di ossigeno necessaria ai muscoli di una persona che si allena quotidianamente per molte ore. Questo ingrandimento del volume del cuore è importante per un atleta ai fini dell’aumento della gittata sistolica e della gittata cardiaca, cioè della quantità di sangue in grado di immettere in circolo nell’unità di tempo.

Si tratta comunque di alterazioni quasi sempre reversibili e infatti con la fine della carriera agonistica e della conseguente necessità di allenamento intenso e costante l’ipertrofia cardiaca scompare e le dimensioni del cuore ritornano simili a quelle di chi non ha mai fatto sport ad alti livelli.

Molti studiosi si stanno però chiedendo fino a che punto simili alterazioni siano tollerabili e quando invece rischiano di diventare patologiche e pericolose per la carriera e per la vita dell’atleta. L’ipertrofia porta regolarmente ad un aumento di volume pari al 25 per cento del cuore rispetto a quello di un non atleta, ma che succede per incrementi superiori? c’è un limite oltre quale diventerebbe un problema? E il ritorno a alle condizioni iniziali dopo lunga inattività ha qualche ripercussione sulla salute? Questi sono solo alcune delle domande che interessano gli studiosi tra cui un gruppo americano di cui parla anche theheart.org che ha progettato uno studio arruolando tre canottieri olimpici come Wyatt Allen, Chris Liwiski, Bryan Volpenhein.

In definitiva sembra che sia meglio passare magari per crudeli, anche se a fin di bene, a causa di un’eccessiva prudenza, piuttosto che piangere poi una giovane vita spezzata col rimorso di aver saputo, ma di non aver fatto nulla per impedirlo. Anche perché quando poi accade davvero qualcosa di brutto non ci si risparmia le critiche contrarie di eccessiva superficialità se non addirittura le accuse di dolo agli staff medici.

Infatti, secondo quanto riferito nell’articolo del BMJmonitorare la salute del cuore degli atleti professionisti non dovrebbe essere difficile, eppure i casi di decessi sui campi da gioco non sono rari perché il controllo sugli atleti non è così attento come dovrebbe essere“. “L’unico paese in cui ciò avviene con regolarità – scrivono ancora gli esperti inglesi – è l’Italia, dove è obbligatoria la visita medica prima delle gare“.
Per una volta quindi siamo citati come un modello da prendere ad esempio, con la nostra scuola di medicina dello sport che viene addirittura considerata “di eccellenza nella raccolta dei dati, nella ricerca clinica, nella gestione degli atleti“.

Non ci aiuterà ad avere la Knapp e la Del Core a Pechino, ma almeno sappiamo che i nostri atleti sono in buone mani!

Fonte: Pensiero Scientifico

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