Enfant prodige? No, "solo" bambini

In Italia l’etichetta di bambino prodigio si applica con troppa facilità. Lo sostengono gli esperti ma anche un illustre musicista che sull’argomento ha più di un motivo per dire la sua.
A sette anni, mentre i compagni di scuola si cimentavano nei pensierini, quello che oggi è ritenuto il più grande violinista italiano e del pianeta, debuttava al Teatro Lirico suonando i «Capricci» di Paganini. Ma se dite a Uto Ughi che è stato un bambino prodigio, vi bacchetterà, replicando che «di ragazzini che fanno concerti è pieno il mondo, e che un musicista, per prendere in mano uno strumento, non può mica aspettare la maggiore età, come il cambiamento della legge D’Alema del ’99 disposto con la recente riforma Gelmini delle superiori sembra suggerire». Se valesse il criterio basato sull’età del primo approccio alla pratica musicale, spiega il musicista «tutti i concertisti adulti di oggi dovrebbero essere stati un po’ bambini prodigio. Nel senso che non ce n’è uno che non abbia preso in mano uno strumento a cinque, sei anni. In Italia l’etichetta di bambino prodigio si applica con facilità, appena si vede un bimbo che suona, quando solo in Giappone ce ne sono a migliaia.»
«I bambini che fanno concerti a sette anni, non sono prodigi della natura ma solo ragazzi precoci, che hanno cominciato presto a studiare. Non come vorrebbero fare adesso, in conservatorio dopo i 18 anni…» spiega riferendosi all’introduzione del liceo musicale e coreutico, che considera «una riforma sbagliatissima». In questo modo si parificano i vecchi conservatori all’università dove, di conseguenza, si entrerebbe tardi, «quando un musicista gli studi dovrebbe averli appena finiti».
Ci saranno i licei musicali che, però, «per adesso sono pochissimi, e poi con quali insegnanti? – si chiede Ughi – Ci vorrebbero quelli diplomati in conservatorio, ma allora che si cambia a fare? Questa è la conseguenza dileggi fatte da gente che non conosce la musica».

Lui invece la musica e il mondo che gli ruota attorno li conosce bene. E anche i ragazzi.

Nei giorni scorsi ha suonato per beneficenza all’Auditorium «La Verdi» con la Cei Youth Orchestra diretta dal maestro Igor Coretti-Kuret, che sul palco era, insieme a Ughi, l’unico di età non compresa tra gli undici e i diciotto anni. La CYO, infatti, è un’orchestra di giovanissimi, e non era la prima volta che suonava con loro. Evidentemente, di ragazzi come questi che preferiscono sgobbare tra strumenti e pentagrammi invece di ballare in discoteca se ne trovano ancora, anche in Italia. L’importante sarebbe non farli sparire.
«Suonare con un’orchestra di minorenni è gratificante. I ragazzi imparano molto velocemente, e anche se all’inizio fanno fatica, hanno una capacità enorme di assimilare velocemente. Ce lo insegna il sistema Abreu», spiega Ughi, riferendosi alla rete di orchestre giovanili e infantili, creata dal maestro José Antonio Abreu in Venezuela, che strappa migliaia di ragazzini alla vita di strada. «Un progetto lodevolissimo, che consente di avvicinare alla musica anche i ragazzi poveri. In Italia ci sarebbero tutte le condizioni – materia prima, potenzialità, forze – per replicarlo. Mancano degli animatori culturali, mancano degli Abreu».

Ma non solo. Perché «non è gli italiani siano meno musicali dei venezuelani. Nei nostri conservatori ci sono tanti ragazzi che, se diretti bene, sono in grado di fare cose sorprendenti. Ma non c’è la volontà politica di aiutarli. Invece di creare nuove orchestre, si eliminano». «La Rai, ad esempio, ne aveva quattro, a Milano, Torino, Roma e Napoli», snocciola il violinista. «Costituivano la spina dorsale della musica sinfonica in Italia. Adesso ce n’è una sola. Per sessanta milioni di abitanti!».

E quei pochi bambini che ancora hanno la voglia e la fortuna di avvicinarsi presto alla musica vengono chiamati enfant prodige e messi su un piedistallo da ammirare fino a quando crescono. Fisicamente, ma spesso, purtroppo, non altrettanto musicalmente.

Il problema, tuttavia, non riguarda solo la musica. In Italia anche le tecnologie e i nuovi media sono terreni in cui più di tutti l’appellativo di enfant prodige si spreca fin troppo spesso a sproposito. Basta vedere un bambino con un telefonino di ultima generazione tra le mani per gridare al miracolo. Ma la verità è che sono gli adulti ad essere spesso più impacciati dei loro bambini. È probabilmente la prima volta nella storia dell’uomo in cui si vedono i più piccoli insegnare ai più grandi. Ma è necessario stare attenti a non lasciarsi andare all’ammirazione, ammoniscono gli esperti. «Bisogna evitare il compiacersi delle doti intellettuali dei propri figli» dice, ad esempio Daniele Novara, pedagogista e direttore del Centro psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti (Cppp). «Il bambino che si destreggia con gli aggeggi tecnologici meglio di mamma e papà non è per forza un piccolo genio. Più probabile che abbia solo, in quanto bambino, una mente molto elastica, tale per cui se lo mette davanti al computer o ad uno smartphone, lui, semplicemente, si adatta più in fretta di un adulto.»

Non geni, insomma, ma bambini con la straordinaria normalità che gli è propria. Parafrasando il titolo di un saggio dello psichiatra Paolo Crepet dovremmo dire “non siamo capaci di valutarli”. Nel bene, ma anche nel male.
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