Giornalisti e blogger a scuola di salute

I giornalisti che scrivono articoli e news su nuovi trattamenti, nuovi strumenti diagnostici, nuovi prodotti e nuove procedure sanitarie lo fanno in modo molto carente e superficiale. La denuncia, che cito testualmente da Pensiero Scientifico – arriva da uno studio di PLoS Medicine. I ricercatori di HealthNewsReview, un sito statunitense che valuta e giudica la copertura giornalistica dei fatti inerenti la salute, coordinati da Ray Moynihan hanno preso in esame 500 notizie distribuite nell’arco di due anni, rilevando che purtroppo i giornalisti quasi mai parlano dei costi, della qualità dell’evidenza, dell’esistenza di opzioni alternative a quella che stanno illustrando, della grandezza assoluta e non relativa di benefici e danni. Un’informazione carente in grado di ostacolare, più che migliorare, la crescita della consapevolezza di pazienti, addetti ai lavori e pubblico generalista.
Come vi o accennato nel post precedente Ray Moynihan tempo fa aveva curato sempre per Plos Medicine l'editoriale di un numero speciale dedicato al Disease mongering – il fenomeno per cui il consumo di farmaci sarebbe spinto da varie figure che, scoperto o creato un farmaco ne creano e alimentano direttamente anche il bisogno (la malattia da curare) – spiegando che si tratta di una pratica sempre più diffusa e pericolosa da cui è necessario che il "consumatore" impari a difendersi, poiché i personaggi e le istituzioni che cercano di portarla avanti sono davvero molti, tra cui appunto i media se non assumono un atteggiamento più responsabile nel loro ruolo di informatori.

Secondo i ricercatori, infatti, la soluzione c'è e non è nemmeno così complicata da attuare.“Basterebbe fornire ai giornalisti più tempo per fare ricerche complete e documentate sugli argomenti dei quali scrivono, garantire più spazio per le notizie sulla salute sui media in modo che gli argomenti possano essere sviluppati a dovere, addestrare e formare i giornalisti sugli argomenti sanitari” ha spiegato infatti Gary Schwitzer, professore associato all’University of Minnesota School of Journalism and Mass Comunication. Per quel che ne so io, i grossi quotidiani hanno al loro interno redazioni dedicate a tematiche specifiche, come appunto scienza e salute, in cui confluiscono giornalisti che provengono da quel mondo, mentre nelle redazioni più piccole, tutti possono scrivere tutto, dalla cronaca rosa, alla politica (anche se a volte non c’è molta differenza), alla fisica, alla medicina, senza avere un minimo di formazione o quanto meno voglia e tempo di indagare troppo.

D’altra parte oggi è sempre più difficile mantenere confini netti tra le notizie. Banalmente se si parla ad esempio di Legge 40 e fecondazione artificiale è difficile parlarne se si sa tutto di politica, ma nulla di etica e/o medicina. Sul caso Franzoni – tanto per citare un altro caso molto discusso in questi giorni – è facile trovare qualcosa da dire, ma se non si hanno competenze giuridiche, medico-legali e psichiatriche si rischia solo di dire sciocchezze che servono a spaccare l’Italia in due tra innocentisti e colpevolisti come purtroppo si è visto.

E di esempi se ne potrebbero fare tanti altri per dimostrare che oggi nessuno può chiamarsi fuori dal discorso sull’etica del proprio lavoro di giornalista o di blogger, visto che nell'era del web 2.0 anche queste nuove figure possono dirsi a pieno titolo appartenenti al mondo dell'informazione. Ci si potrebbe chiedere quanti giornalisti (e blogger) sarebbero disposti a fare un corso come quello proposto dai ricercatori nell’articolo di Plos Medicine, perché allo stato attuale non c'è una regola precisa: tutto è lasciato al buon cuore dei direttori e dei proprietari dei vari media e alla coscienza dei singoli giornalisti.

Per quel che mi riguarda, nel momento in cui ho deciso di dedicarmi al giornalismo, ho preferito frequentare prima un Master in comunicazione, consapevole del fatto che, pur avendo le conoscenze mediche, non avevo una adeguata formazione di tipo giornalistico: la scuola di medicina insegna a comunicare al massimo nell'ambito ristretto della relazione medico-paziente, ma per i grandi numeri degli utenti dei media non ero attrezzata. In ogni caso continuo a limitarmi all'area salute (con uno sguardo all'arte) perché su altre tematiche non avrei il bagaglio culturale necessario. Il motivo per cui, ad un certo punto, sono passata al giornalismo via blog ve lo spiego un'altra volta. Adesso dobbiamo vedere cosa combinano nel mondo del cinema e della tv a proposito di lotta alla "disinformazione sanitaria".

Col prossimo post però.

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