La magia de L'illusionista è pura poesia

Sette anni dopo Appuntamento a Belleville (Les Triplettes de Belleville, Premio Oscar nel 2004) Sylvain Chomet torna al cinema. E lo fa alla sua maniera: rompendo gli schemi. Nel momento in cui imperano effetti speciali e immagini plasmate dal 3D lui si presenta con un film fatto a mano, basato su una storia scritta negli anni Cinquanta da uno dei più grandi mimi e rappresentanti del cinema “quasi muto” francese, Jacquet Tati: quello di “Mio zio“.
Un’opera delicata e sognante, che il regista morto nel 1982 non era mai riuscito a mettere in scena e che poi la figlia, Sophie Tatischeff, commossa dall’omaggio che Chomet aveva già fatto al padre in Appuntamento a Belleville, dove erano mostrati i manifesti dei suoi film, ha deciso di proporgli anche questa sfida.

Decidere per Chomet non è stato facile: “Fare il film di un altro, soprattutto di uno famoso come Tati, era l’ultima cosa che volevo fare: ma già in Appuntamento a Belleville c’erano i suoi manifesti e le immagini di Giorno di festa, per la figlia il mio stile è congruente al suo mondo, e… quando ho letto lo script me ne sono innamorato“. Lo sarebbe anche la figlia se non fosse morta prima di vederlo realizzato. Cinquant’anni dopo, infatti, è ancora Tati, perché la sceneggiatura è ancora quella ideata nel ’53, redatta e lasciata incompiuta 6 anni dopo. Unico cambiamento fondamentale: da Praga si passa a Edimburgo, e il focus è su un rapporto padre-figlia assolutamente platonico. “Non era con Monsieur Hulot, è già questo mi ha consentito maggior libertà nell’adattamento“, dice Chomet, osservando come l’illustre collega “è passato alla storia come un distruttore di attori, perché li usava in modo non dissimile dai personaggi dell’animazione, mostrando loro ogni posa, ogni movimento. Per fortuna, io non devo torturare nessuno…“.

Protagonista de L’illusionista, è un mago lungagnone e intristito (ricorda la fisionomia dello stesso regista, sceneggiatore e mimo francese) che, nonostante la palese bravura, il coniglio bianco e mordace, i trucchi affascinanti, non riempie più i music hall. La salvezza gli viene da una giovanissima ragazzina scozzese, che lo seguirà a Edimburgo, tra agenti truffaldini, doppi lavori e show nelle vetrine dei negozi: eppure, saprà restituirgli il sorriso, anzi, la speranza, che il mago ricambierà con doni (scarpe e vestiti) e, infine, la libertà di entrare sola nell’età adulta.
Evento speciale all’ultima Berlinale, già distribuito in Francia e, con maggior successo, in Inghilterra, a Natale con Sony negli Usa, L’illusionista animato di Sylvain Chomet è arrivato ora anche in Italia: dal 29 ottobre, viene distribuito in 30-35 copie dalla Sacher di Nanni Moretti.

Troppo poche per un film che è un capolavoro.

Lo scrive senza mezzi termini anche il nostro “vecchio” compagno di viaggio Alessio Cappuccio (ex membro dello staff di Blogosfere.it) nel primo post del suo nuovo blog Invenzione senza futuro.
Sì, è un film a cartoni animati, senza gli attori in carne e ossa. E in più FRANCESE.” Ammette. “Immagino il panico e l’improvviso dolore alle zone addominali che prende l’italiano medio quando sente parlare di cinema francese (“sono leeenti, sono spocchiosi, sono degli zozzoni impudichi, mangiano le rane”), ma bisogna riconoscere che a- nel passato ci ha dato tanti di quei nomi ENORMI della storia del cinema, e b- attualmente è una cinematografia che è molto più in salute di quelle italiana: fa dei film d’autore interessanti e i film di genere (commedie, horror, action) sono mediamente di qualità maggiore“. E comunque L’illusionniste è “un capolavoro totale“.

Non è un film facile da metabolizzare per il cuore.Il tono delle vicende è sempre molto tenue, scherzoso, non ci sono mai situazioni sopra le righe, ma improntato al realismo. Come tutti i grandi comici del passato, – ricorda il blogger – Tati aveva una particolare simpatia per gli outsider, i diseredati, i marginali della società; questo atteggiamento si riscontra nel modo in cui vengono descritte le difficoltà dei personaggi che girano attorno ad un mondo dello spettacolo oramai superato, un atteggiamento che è di estrema delicatezza, ma che purtuttavia non risparmia allo spettatore la consapevolezza di stare osservando una storia crepuscolare, che non lesina in momenti malinconici e oggettive sconfitte.
Perfino il rapporto con l’immancabile coniglio è improntato al realismo. “L’animale – spiega, infatti, Alessio – rimane un animale, e per quanto risulti simpatico nel suo dimenarsi nella gabbietta in cui viene trasportato, o per la sua mole strabordante, o per il fatto che morda chiunque tenti di prenderlo in mano, ciononostante non c’è mai l’antropomorfizzazione della bestia che vediamo in opere analoghe.” Qui non siamo, insomma, a Disney world. L’attenzione per lo stile grafico, i dettagli, le gag e le musiche, tutt’altro che contorno o orpello inutile, sono poi le ciliegine che rendono la torta un capolavoro da gustare lentamente. Possibilmente in sala, e possibilmente vuota o in religioso silenzioso per assicurarsi l’effetto “lucciconi agli occhi” finale.

Quattro pallette e mezzo sarebbe il voto oggettivo, ma facciamo anche cinque per l’emozione” sentenzia Alessio. Troppo buono?! Beh, giudicate voi. Un assaggio col trailer, ma è da vedere.

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