La vita senza un perché

«La cellula è alla base della vita.
Ma nella Natura niente è stato programmato:
ogni elemento si è semplicemente evoluto,
senza alcuno scopo.
»
Robert Horvitz, biologo

E questo lo sapevamo. Peccato che l’evoluzione abbia portato allo sviluppo del genere umano, dotato di un sistema nervoso di una complessità tale da metterlo nelle condizioni di voler trovare uno scopo non solo alla sua vita ma anche a quella delle altre creature del mondo e dell’universo intero.

E, infatti, Horvitz, che quando ha pronunciato questa frase stava parlando di apoptosi, un termine tecnico per definire la morte cellulare programmata, si è sentito in dovere di specificare che «Bisogna stare attenti a non farsi fuorviare dalla parola: la morte cellulare è programmata per le cellule, ma non è stata programmata da nessuno!». Come, appunto, niente in Natura.

Ma in fondo anche una piccola cellula può aiutare a spiegare la filosofia della nostra vita (e della nostra morte).

Il concetto di morte cellulare programmata, per cui Horvitz ha vinto il premio Nobel per la medicina nel 2002 insieme a permette, infatti, di fare una considerazione assolutamente contro-intuitiva sulla morte che prima della sua scoperta non sarebbe stato possibile fare. E cioè che il processo di formazione degli organismi, per divisioni successive a partire da un’unica cellula-uovo fertilizzata, si basa sulla morte di un gran numero di cellule. «L’ intero processo è diffuso e fondamentale. – assicura Horvitz. Ad esempio, muoiono l’85 per cento delle nostre cellule cerebrali, e il 15 per cento di quelle immunitarie. E in molti casi queste cellule muoiono prima di aver potuto fare qualunque cosa».
In pratica, «nascono per morire. Letteralmente.» aggiunge. Ma si tratta di un processo senza il quale si avrebbe uno sviluppo fortemente anormale di individui che non sopravviverebbero a lungo. E’ quindi di vitale importanza e per nulla casuale. Infatti, spiega ancora Horvitz, «la si chiama “programmata”, ed è una parte fondamentale del programma genetico dello sviluppo. E, più in generale, della vita animale. Ma non è stata programmata da nessuno!». Come niente in Natura, dove tutto si evolve senza “programmazione superiore” e senza alcuno scopo.

La morte programmata dà, però, un importante vantaggio evolutivo che ne spiega la persistenza. Infatti, «permette di “scolpire” e raffinare l’organismo in maniera sofisticata e potente, eliminando alcune cellule che sono già state generate. Quali cellule eliminare, e come, cambia a seconda dell’organismo. E l’intero meccanismo non è ancora stato completamente compreso». Tuttavia si sa che la morte programmata non interessa solo le cellule di organismi complessi, ma anche quelle individuali «seppur con un meccanismo diverso da quello di cui stiamo parlando. E’ stato scoperto da Elizabeth Blackburn, Carol Greidere Jack Szostak, che hanno per questo ottenuto il premio Nobel per la medicina nel 2009» precisa Horvitz.

Rimanendo nel campo della fisiologia umana la prima malattia che viene in mente legata a un funzionamento anomalo della morte cellulare è il cancro. Ma il collegamento non è banale, del tipo “morte cellulare – morte dell’ individuo”. Al contrario, il problema è che le cellule cancerogene si dividono all’impazzata, e rifiutano di morire». Lo stesso si può dire anche per le infezioni virali e per le malattie autoimmuni, in cui il problema è appunto un difetto di morte cellulare. In altre malattie quali l’Alzheimer o l’Aids, il problema è, invece, l’opposto, cioè un suo eccesso. Bisogna quindi dire che «benefico e necessario è l’equilibrio tra vita e morte.»            E poi, non è che una cellula abbia solo la scelta tra vivere o suicidarsi. Le cose sono complicate, e l’ attivazione o l’ inibizione del meccanismo di suicidio possono essere raggiunte in vari modi. Ad esempio, una cellula può suicidarsi direttamente, perché viene attivato questo meccanismo. Oppure può suicidarsi indirettamente, perché viene inibito un altro meccanismo che inibisce il meccanismo di suicidio,e così via. Sappiamo molto di questi vari meccanismi, ma poco di come sono integrati fra loro». Cosa si deduce da tutti questi discorsi, se si paragonano le cellule individuali agli individui e l’ organismo a una società? «Una volta l’ Università di Berna mi ha dato un premio. Nel comitato per l’ assegnazione c’ era un teologo, che mi disse di essere rimasto molto colpito dal fatto che il suicidio giocasse un ruolo così grande nella biologia. L’ idea che la morte di una parte fosse non solo la manifestazione di un processo naturale, ma anche qualcosa di utile per l’ intero organismo, l’ aveva costretto a rivedere il suo pensiero teologico». Ma lei, cosa pensa al proposito? « Io sono un biologo, e il mio compito è di scoprire i fatti. Preferisco lasciare ai teologi e ai filosofi il compito di tirare le conclusioni che ne derivano: non ho una religione personale, che mi spinga a generalizzare dalla biologia alla sociologia».
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