Libri di Natale: quando la musa si ammala. Tutti i dettagli sul caso Schumann

Musica, creatività, genio e malattia. Non se ne parla spesso. È più facile pensare all’associazione negli artisti del pennello o della scultura. Persino qui su Arte e salute abbiamo dedicato ampio spazio alle sofferenze di Van Gogh, Caravaggio, e meno a quelle di Mozart, Beethoven, Schumann… Eppure, proprio questi ultimi esempi illustri ci dicono che anche i musicisti si ammalano. A volte è una malattia del corpo. Altre della mente. Ma nella maggior parte dei casi è difficile stabilire con certezza un limite tra ciò che è organico e ciò che appartiene alla sfera psichica, tra fisico e mentale. La creatività stessa, d’altra parte, riconosce sia una componente puramente fisica, neuronale, sia quel qual cosa che è difficilmente definibile e che sfugge alla comprensione anche con gli strumenti più sofisticati per indagare il substrato fisico del nostro cervello.

Del “caso Schumann” e gli altri compositori che hanno sofferto di una qualche patologia, spesso al limite tra fisico e mentale, si occupa ora La musa malata, volume appena pubblicato dall’Editore Antalogon sull’indagine dello psichiatra inglese Eliot Slater (1904-1983), pioniere nel campo della genetica dei disturbi mentali e grande appassionato del rapporto tra genio creativo musicale e patologia.

SCHUMANN E GLI ALTRI. È possibile dire che le patologie mentali di cui erano affetti alcuni grandi compositori abbiano influito sulla loro creatività e, dunque, sulla loro opera? E se sì, in che misura ciò è avvenuto?

Sono le stesse domande che ci si pone anche davanti ad un pittore o a uno scultore malato: domande essenziali cui, però, è facile dare risposte affermative superficiali, ma che difficilmente possono produrre argomentazioni univoche. Ciascuna ipotesi, infatti, apre inevitabilmente una serie di porte secondarie su altrettante discipline di per sé complesse e controverse, dall’estetica alla musicologia alla psicanalisi.

Il caso limite è quello degli studi su Schumann: difficile stabilire quali furono i disturbi organici e caratteriali di cui fu vittima, ancor più difficile determinare in che misura tali disturbi favorirono e poi afflissero la sua creatività. Una mutazione nei meccanismi logico-artistici della composizione musicale può essere dovuta al deterioramento di alcune funzioni cerebrali (come quella del linguaggio nel caso di composizioni vocali) oppure a un’improvvisa accelerazione stilistica, con quei tratti visionari e “anticipatori” che tanto piacciono ai musicologi idealisti. La risposta di Eliot Slater si distingue per la sua razionalità empirica e statistica, e forse proprio per questo fa luce su molte verità artistiche e filosofiche che poi allargò ad altri compositori (Wolf, Händel, Wagner). Tramite l’applicazione del buon senso agli studi patografici, egli si avvicinò più di ogni altro alla verità sul caso Schumann (come fu poi confermato da nuovi documenti), e i risultati dei suoi studi sono in tal senso complementari a quelli sull’opera schumanniana realizzati negli stessi anni ‘60-’70 da Eric Sams, che fu in stretto contatto con Slater (e di cui Analogon cura da anni l’opera omnia in italiano).

I due studiosi furono in corrispondenza anche riguardo a questioni shakespeariane: entrambi pubblicarono, per Cambridge e per Yale, un’edizione critica di Edward III come opera di Shakespeare. Della selezione di scritti di Slater qui tradotti per la prima volta in italiano, in gran parte dedicati appunto al rapporto tra malattia mentale e creatività musicale, fanno parte anche alcuni scritti che analizzano il pensiero shakespeariano tramite una lettura psicanalitica dei Sonetti. Un’aggiunta, questa, che non considererei legata solo alla volontà di mettere insieme tutto il lavoro dell’autore, ma decontestualizzata dal resto del volume. Anche in Shakespeare c’è molta “musica”, in fondo.

L’AUTORE. Eliot Trevor Oakeshott Slater nacque a Plumstead, Londra il 28 agosto del 1904 e morì a Barnes, sempre nella capitale, il 15 maggio del 1983. Figlio di un professore di storia economica e di una musicista fu un brillante studente e fece un altrettanto brillante inizio di carriera medica che gli valsero una borsa di studio della fondazione Rockefeller per perfezionarsi a Monaco di Baviera con Bruno Schulz negli anni dell’avvento al potere di Hitler. Là conobbe la sua futura moglie Lydia Pasternak, figlia del pittore russo Leonid Pasternak e sorella dello scrittor Boris.
Sdegnato e disgustato dalla crescente nazificazione dell’Istituto di Monaco in questo periodo (il direttore dell’Istituto, Ernst Rüdin, fu uno degli architetti della politica di sterilizzazione eugenetica di Hitler) abbandonò la Germania nel 1935, favorendo l’emigrazione in Gran Bretagna della famiglia Pasternak.

Tornato in patria, assunse cariche di rilievo al National Hospital for Nervous Diseases e all’Istituto di Psichiatria del Maudsley Hospital, scrivendo opere di fondamentale importanza, tra cui Clinical Psychiatry (con Willi Mayer-Gross e Martin Roth, 1954, ristampato per oltre vent’anni). Fu direttore editoriale del British Journal of Psychiatry dal 1961 al 1972, facendone una rivista di punta a livello europeo; fu attivo come oppositore della pena capitale in Gran Bretagna (membro della Reale Commissione), e sostenitore del libero arbitrio nelle questioni relative all’eutanasia. Nel 1966 fu nominato Commander of the Order of the British Empire. Svolse importanti studi di statistica applicata alla letteratura, in particolare su Shakespeare, con decine di pubblicazioni. A 78 anni ottenne un dottorato con una tesi su Edward III, un’opera considerata anonima di cui egli volle dimostrare la paternità shakespeariana tramite lo studio statistico-comparativo delle parole e delle forme verbali.

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