Lobotomia: estremo rimedio di una medicina da manicomio?

«A mali estremi, estremi rimedi». Deve aver pensato questo Egas Moniz, neurologo portoghese quando cominciò ad applicare la lobotomia ai pazienti psicotici. Era il 1925 e solo qualche anno più tardi (1949) per questa sua invenzione ricevette il Nobel. In ogni caso è quello che ha pensato Walter J. Freeman quando decise di esportare la tecnica negli Stati Uniti. O almeno è ciò che sostiene El Hai in «The lobotomist», il libro che nel 2005, anno di pubblicazione, divenne subito un bestseller. Il titolo è molto cinematografico e soprattutto in America ha avuto un grande successo, ma non mi risulta che ad oggi ne sia stato tratto un film in stile hollywoodiano. Non è detto però, anche perché la PBS ha realizzato un documentario che è stato presentato al pubblico solo all'inizio di quest'anno.

All'epoca dell'uscita, molte riviste mediche dedicarono invece ampio spazio alle recensioni del libro e alle discussioni sollevate dai lettori su questo argomento. Se ne occupò ad esempio la rivista inglese New England Journal Medicine con un articolo pubblicato nella sezione "Prospettive", perché come vedremo ci sono in effetti molti modi di considerare questo capitolo della medicina che al contrario si vorrebbe cancellare completamente.   Infatti oggi la lobotomia è unanimemente considerata un'inutile barbarie tanto che sono in molti quelli che vorrebbero, nemmeno troppo metaforicamente, la testa del suo inventore . «Perché non revocare il nobel a Moniz?» si chiedono, ad esempio, i parenti delle vittime e prima fra i tanti Christine Johnson, che sul sito web Psychosurgery ha lanciato una campagna proprio a tale scopo. Ma non si può. Una volta assegnato, il Nobel non può essere tolto. «Eppure – sostenne il  giornalista John Sutherland, affrontando l'argomento sul Guardiandi premi contestati ce n'è più d'uno, come i Nobel per la pace a Henry Kissinger del 1973 e a Jasser Arafat del 1994».

lI caso di Moniz, in base alla tesi sostenuta da EI Hai nel libro, è comunque un po' diverso. Qui non c'è stato inganno o malafede. Egli credeva davvero di agire nell'interesse dei pazienti, così come lo credeva Freeman. Il fatto è che nei primi anni del ‘900 non c'erano farmaci o cure efficaci e i pazienti psichiatrici potevano solo essere internati in luoghi sovraffollati e sporchi, senza nessuna reale prospettiva di guarigione. Gli stessi luoghi che l'Italia eliminò per prima al mondo con la famosa legge 180 di cui proprio in questi giorni ricorre il trentennale. Moniz era convinto che i sintomi di questi pazienti fossero dovuti ad alterazioni delle connessioni nervose stabilitesi nel corso di anni e quindi pensava che recidendo queste connessioni – e in particolare quelle tra i lobi frontali e il resto del cervello – se ne sarebbero formate di nuove e ciò avrebbe portato ad un miglioramento clinico. In effetti i risultati almeno all'inizio sembravano straordinari: i pazienti diventavano calmi e tranquilli e non si abbandonavano più a deliri o urla isteriche e Freeman si convinse ad applicare le resezione delle connessioni difettose anche ai suoi pazienti. Non tutti però si lasciarono affascinare.

Già nel 1937, quando al meeting annuale dell'American Medical Association, Freeman e il suo collega neurochirurgo James Watts presentarono i casi di venti pazienti lobotomizzati, si scatenò un feroce dibattito tra coloro che ritenevano la lobotomia una procedura «brutale, non scientifica e pericolosa» e quelli che la giudicavano ottima e si dicevano pronti ad utilizzarla. Sia gli unì che gli altri potevano presentare casi per sostenere la loro posizione. Da un lato l'entusiasmo di Freeman cresceva pericolosamente ad ogni caso "risolto". Ad un certo punto cominciò addirittura a girare su e giù per l'America con una macchina detta «lobotomobile», praticando la lobotomia nelle condizioni più disparate e nel 1946 ne modificò la procedura utilizzando come accesso la fessura orbitaria anziché un foro praticato col trapano nel cranio, ma intanto faceva anche molti proseliti. Dall'altro invece crescevano i contrari e pure l'opinione pubblica cominciava a schierarsi contro la lobotomia, anche sull'onda dell'emozione suscitata dai casi resi noti di persone rovinate dai medici, come quella di Rosemary Kennedy – sorella di John e Robert, il cui ritardo mentale peggiorò dopo l'intervento – e della sorella di Tennessee Wiiliams, a cui l'Autore dedicò «Improvvisamente l'estate scorsa» – oppure ancora del libro-denuncia di Ken Kesey «Qualcunò volò sul nido del cuculo». Ad ogni modo decine di migliaia di pazienti furono lobotomizzati prima che la scoperta della clorpromazina e degli altri neurolettici, riuscisse a mandare in pensione questo drastico atto medico.

I fatti raccontati da El Hai erano del resto già noti e altri libri se ne erano occupati. Ma allora perché tanto interesse da parte dell'autorevole rivista inglese per un triste capitolo nella storia della medicina di cui gli stessi medici sì vergognano e soprattutto perché ve ne parlo ora?

Semplicemente perché la peculiarità del libro di El Hai è proprio quella di fornire una nuova "prospettiva" da cui guardare la lobotomia e soprattutto il suo più grande fautore Walter Freeman. «The lobotomist – disse Hai all'epoca – è il mio tentativo di comprendere e non di difendere la lobotomia e colui che l'ha resa popolare. È un esempio di come le buone e le cattive qualità possono convergere nello stesso individuo con buoni e cattivi risultati». Secondo l'Autore, infatti, Freeman aveva molti difetti. Arroganza, egocentrismo e testardaggine tanto per citarne alcuni e aveva una preoccupante spinta a collezionare i casi più emblematici come fossero trofei. Ma era anche uno scienziato brillante e assolutamente originale, che si prendeva cura dei suoi pazienti. Quello che Hai e il New England Journal Medicine vollero sottolineare è che non si può giudicare retrospettivamente, separando i fatti dal contesto. «La lobotomia è il prodotto del suo tempo. E quello che può succedere quando medici e pazienti si trovano a dover "fare assolutamente qualcosa" per contrastare situazioni in apparenza senza speranza: qualche paziente finisce inevitabilmente per fare da cavia. A volte non si arriva nemmeno a una cura efficace, ma altre volte sì. La medicina dovrà affrontare ancora "interventi da ultima spiaggia", l'importante è stare attenti e impedire che siano gli interessi economici o uomini senza scrupoli a gestirli».

Queste conclusioni della rivista inglese che sono in linea con quelle dell'Autore sembrano crudeli oggi che abbiamo i farmaci e tante altre terapie meno cruente per tenere sotto controllo la malattia mentale, ma all'epoca di Freeman e ancor di più di Moniz queste strategie non c'erano e si andò con la mano pesante. C'è chi sostiene che la chiusura dei manicomi abbia portato ad un netto incremento nella ricerca e quindi nella scoperta di farmaci efficaci per curare quando in precedenza c'erano al massimo quelli capaci di "contenere". Oggi le ricerche sono ancora in corso, si scoprono soluzioni sempre più efficaci e con sempre meno effetti collaterali. Eppure anche ai nostri giorni c'è chi considera gli psichiatri ancora come "i medici dei pazzi", c'è chi consiglia ad amici e parenti di "non prendere psicofarmaci perché rimbambiscono" e c'è chi di sua iniziativa non li prende perché pensa che "possano annullargli la volontà". Ci sono sempre tanti modi da cui guardare le cose. Forse l'unico consiglio che mi sento di darvi è quello di non pensare mai di essere in assoluto dalla parte della ragione, qualunque sia il vostro punto di vista.

La lobotomia è stato un disastro umano colossale, così come lo sono stati i manicomi-lager, ma c'è qualcosa di profondamente ingiusto e immorale anche nel lasciare i malati in balia di se stessi o sulle spalle di familiari che non sanno più dove sbattere la testa. A volerli vedere i pro e i contro si trovano in tutte le cose, l'importante è rimediare dove si può e avere il coraggio di fermarsi quando il prezzo è troppo alto.

Fonte: Tratto da "E il Lobotomista diventa un bestseller" di Emanuela Zerbinatti, pubblicato sul Sole24ore – Medici 2005

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