No pain, no gain? Sofferenza e risultati nello sport e nel lavoro

di Gianfranco Di Mare

Performance Engineer
 

Abbiamo accennato, un po’ di tempo fa, a questo curioso modo di dire degli anglosassoni, che grosso modo significa “non c’è progresso senza dolore”, o “se non soffri non progredisci”.

Penso di poter dire senza tema di smentite che ne ha uccisi più questo adagio che gli anabolizzanti…

Il problema grosso, per milioni di praticanti di tutto il mondo, è stato che saper dosare il disagio fisico quasi al limite del dolore è arte difficile, e comunque raramente utile. Che un atleta professionista decida di spingersi di più verso i propri limiti può avere un senso legato all’esasperata ricerca di un’affermazione o di un miglioramento; ma certamente una scelta del genere non porta verso la salute né verso il benessere, e non ha senso in chi pratica attività sportive per divertimento, e per il piacere di migliorarsi.

Bisogna esssere consapevoli del fatto che l’agonismo oggi non è sport, è un lavoro; un lavoro che – come altri – può durare solo pochi anni, e che non ha nulla a che vedere col fitness o il piacere. Un lavoro con le sue aberrazioni, le sue frustazioni, le sue malattie professionali.

Ricordo ai tempi del liceo un Maestro dello Sport (cioè un membro dell’élite tra gli specialisti italiani della preparazione fisica, uscito da una Scuola nazionale per tecnici dello sport che era restata aperta solo due anni e poi era stata abolita, diplomando nel corso della sua esistenza non più di una ventina di superspecializzati) che guardando un ragazzo fare stretching col rimbalzo gli disse “dài, insisti, è l’ultimo centimetro che fa la differenza!…”. È vero invece il contrario: lo stretching è molto più efficace, in termini di risultati, se praticato dolcemente ed in maniera quasi statica.

Ora, se proprio volessimo dare a “no pain, no gain una lettura positiva potremmo dire che, certo, l’impegno dà – spesso – dei risultati. Ma un impegno mal gestito, male indirizzato può essere del tutto inefficace.

A ben guardare, il problema sta altrove: sta nel fatto che viviamo in una cultura che da migliaia di anni ci insegna che la felicità non esite, che “più in alto si salta, più in basso si cade”, che “chi s’accontenta gode”, che i piaceri del corpo ci distolgono dal vero scopo della vita: santificare e preservare l’anima; che “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”; che quando si ha tutto e non si viene mai bacchettati si diviene immorali… Sono certo che chiunque di noi potrebbe continuare con le citazioni per una pagina intera.

Ecco che il conseguimento di un piacere o di una condizione superiore, soprattutto se dura troppo o se non è bilanciato dal pagamento di un pegno in termini di sofferenza o da un impegno etico, diventa immorale.

Le signore borghesi dell’800 portavano, a volte, sui mutandoni (che avevano un’apposito foro per l’accoppiamento, in modo da non costringerle a restare nude durante l’espletamento dei doveri coniugali e riproduttivi) la scritta “non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio”.

Riflettendo in questi termini, si scopre che la nostra cultura ci ha lasciato, nei secoli, ben poche eccezioni e spazi di libertà. Ma anche, e soprattutto, che gli spazi interiori più utili non si conquistano attraverso la lotta e la ricusazione, ma attraverso una progressiva tasfigurazione ed elaborazione che ci mantenga sempre presenti e aderenti, pur nell’evoluzione, a ciò che siamo.

Buona Pasqua a tutti!

Imagine courtesy homolaicus.com

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