Paese che vai, cyber-paziente che trovi

I pazienti navigano in internet e secondo le statistiche sono pure tanti.
Ma come navigano?

Bisogna pensare che a fare la differenza siano soprattutto i fattori ambientali e culturali piuttosto che quelli biologici o legati al tipo di patologia, senza dimenticare la diffusione dei mezzi informatici e l’abitudine a usarli per le proprie necessità, perché a quanto pare dipende dal Paese di appartenenza. .

Gli inglesi, ad esempio sono dei classici ‘cybercondriaci’. Schiavi di Google, infilano nella casella di ricerca i sintomi e i nomi di malattie di cui sospettano di soffrire come parole chiave, attendono il “responso” e navigano nervosamente tra le varie ipotesi diagnostiche fino a quando pensano di aver trovato quella che calza a pennello al loro quadro sintomatologico. Solo a questo punto corrono trafelati dal medico per trovare conforto ma soprattutto terapie. Un atteggiamento scorretto, che condanna all’ansia e obbliga a sottoporsi continuamente a esami e trattamenti anche invasivi quando non ce ne sarebbe bisogno, ma che in Gran Bretagna sembra parecchio diffuso. Secondo un’indagine di Engage Mutual, una società inglese specializzata in questo tipo di studi, oltre sei adulti su 10 si rivolgono al web anziché al proprio medico quando avvertono un disturbo di salute. E la metà si convince poi di avere un problema grave, a volte anche mortale. Un mal di pancia, ad esempio, negli inglesi ha il 28% di probabilità di trasformarsi in un’appendicite dopo un rapido controllo online.

Per fortuna, almeno in questo, gli italiani sono molto più pacati e in rete tendono, semmai, a fare un percorso inverso: prima vanno dal medico e poi sul web per approfondire le informazioni ricevute, come assicura anche Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale (Simg).
Fra i nostri pazienti – spiega – circa il 25% ha accesso regolare a internet e coloro che ne fanno uso sono i più giovani e le persone con un’istruzione medio-alta. C’è poi anche chi fa ricerche online per conto di altri, magari dei nonni o dei genitori, ma si tratta quasi sempre di un tentativo di approfondire la diagnosi ricevuta dal medico, tanto che meno dell’1% di queste persone può essere definito ‘cybercondriaco’“.

La differenza tra noi e gli inglesi o anche gli americani, perché pure negli Usa i cybercondriaci sono parecchio diffusi, è appunto culturale e legata al tipo di assistenza sanitaria o atteggiamento delle istituzioni nei confronti dei cittadini e della gestione della loro salute.
Nei Paesi anglosassoni – prosegue Cricelli – c’è una più ampia e lunga tradizione di diagnosi, per così, dire ‘fai-da-te’. Il Governo britannico, ad esempio, a partire dagli anni ’90 ha incoraggiato l’utilizzo del sito del ministero della Salute, dotato di ‘mappa’ del corpo umano, come strumento per comprendere l’origine di piccoli malanni e per curarli con i farmaci di automedicazione“.
Negli Stati Uniti, invece, il problema è sentito più che altro perché le persone che non hanno un’assicurazione sanitaria si rivolgono al web per evitare di andare dal medico e anche l’acquisto di farmaci online è molto più diffuso, proprio per ‘saltare’ il passaggio della prescrizione medica” aggiunge Cricelli.

In Italia la situazione è completamente diversa, proprio grazie al tipo di assistenza sanitaria e all’atteggiamento di chi ci governa. La prima, infatti, pur con tutte le sue pecche, è gratuita e garantita a tutti, mentre il secondo che è sempre stato considerato più “paternalistico” che altrove per quanto spesso si rivela protettivo e troppo decisionista anche per quel che concerne una sfera così privata come la salute dei singoli cittadini scongiura almeno il pericoloso “fai-da-te” delle cure attraverso la rete.
Da noi “i medicinali vengono comprati su internet in una percentuale ridottissima – assicura il presidente Simg – e più che altro si tratta di prodotti non ‘terapeutici’“, come i supplementi alimentari o per la palestra, “poiché il nostro Sistema sanitario assicura farmaci gratuitamente a tutti“, purché provvisti di regolare ricetta medica. Motivo per cui anche il ricorso all’autodiagnosi telematica è molto più ridotto che altrove.

A mio parere c’è, tuttavia, anche un’altra ragione, perché se è vero che il nostro modello sanitario è più “democratico” che altrove, è anche vero che non si può dire lo stesso per l’accesso a internet, vuoi per la mancanza di mezzi (computer e connessioni veloci uniformemente distribuite su tutto il territorio) vuoi per il conseguente basso livello di alfabetizzazione informatica dei cittadini che è stato, invece, trascurato e, questo sì, lasciato al fai-da-te. Che ci manchi una cultura nell’uso della rete in generale, lo stiamo vedendo ora che la rivoluzione Brunetta sta cercando di informatizzare tutta la pubblica amministrazione con l’intento dichiarato di “ridurre tempi e costi di gestione e funzionamento a beneficio anche e soprattutto dei cittadini”, e che invece non è stata accolta con l’entusiasmo e i risultati sperati.
Tra intoppi e disagi stiamo dimostrando tutta la nostra impreparazione e i più spaesati sembrano proprio gli enti e le PA che si stanno dimostrando incapaci di assorbire i tempi rapidi le novità apportate.

Ci vuole pazienza, ma a questo punto anche lungimiranza. Obbligare a passare online per le questioni che riguardano la propria salute può creare un esercito di cybercondriaci se non c’è controllo di chi mette contenuti online e adeguata informazione sull’uso consapevole di questi da parte dei cittadini.

Fonte: Adnkronos salute

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