Van Gogh? Da psichiatra non l'avrei curato

Lo psichiatra Vittorino Andreoli è categorico a proposito del celebre pittore dei “girasoli”: «Fossi stato il suo medico, e avessi avuto allora a disposizione le risorse della scienza moderna, beh, io i farmaci non glieli avrei dati.» Non perché non lo ritenesse malato, anzi.
Il fatto è che quando arte e follia si intrecciano così fortemente nella stessa persona, il dubbio che curando la malattia si perda il talento creativo diventa quasi certezza. «Metti che poi non avesse dipinto quegli incredibili gialli…» ipotizza Andreoli, in un’anticipazione dell’incontro che si terrà il 20 gennaio al Bookstore Skira Triennale di Milano (ore 18.30, in viale Alemagna 6) per presentare il suo ultimo libro Le mani nella creta. I mondi di Ilario Fioravanti, edito dalla Fondazione Tito Balestra.
È l’ennesima opera dedicata ai moti dell’anima più estremi e vitali che un uomo possa provare: la paura, l’amore, la forza creativa,… Un racconto avvincente che testimonia l’incontro eccezionale tra un grande psichiatra e uno dei più interessati scultori contemporanei. E un modo per tentare di avvicinarsi al cammino di un uomo che come suo unico scopo nella vita ha avuto quello di vivere con e attraverso la sua arte.

Vittorino Andreoli, specialista in follia, ma anche scrittore ad ampio raggio e uomo dai mille interessi. Tra cui, appunto, quello per l’arte che coltiva fin da giovanissimo. «Sono stato il primo a dar vita a un atelier di pittura, nel manicomio di Verona e ho presieduto l’associazione mondiale della comunicazione non verbale», dice ricordando di essere stato anche «l‘unico psichiatra a essere ammesso nella Compagnie de l’Art Brut, creata da Jean Dubuffet che coniò per me la definizione di “psichiatra non psichiatra».

Ed è proprio da questo genere artistico, l’Art Brut, ovvero l’arte “non  culturale”, che si può cominciare a inquadrare il rapporto tra follia e arte, poiché nato spesso nei manicomi. «È una storia lunga. Già nel 1892 Lombroso sosteneva che matti e carcerati, non costretti dai condizionamenti sociali, hanno una più libera capacità creativa. Facciamo un salto. – invita Andreoli – Nel 1939 Jean Dubuffet teorizzò che la cultura ammazza l’arte. E si mise a collezionare opere di gente che non aveva mai frequentato accademie o avuto maestri. Questo per dire che anche i malati più gravi, gli schizofrenici, gli epilettici, i depressi gravi, possono arrivare a splendide forme di espressione. Sì, la follia è compatibile con la grande arte».

E il dolore della malattia?

Se c’è la malattia ci sarà anche il conseguente malessere. «Certo, la follia è sofferenza, – ammette – ma in realtà esistono due tipi di matti: quelli da curare e quelli da lasciare in pace.»
Come Van Gogh, suppongo. Resta da capire se vale in generale o solo per i matti creativi. In ogni caso non so se sono così d’accordo con Andreoli. In fondo non abbiamo la controprova. Chi ci dice, infatti, che tra i matti non curati, o “lasciati in pace”, non ci siamo persi per strada qualche artista geniale. E cosa potremmo dire di Van Gogh se lo si fosse lasciato “in pace” fino in fondo? Siamo sicuri che sarebbe stato più libero di dipingere e più creativo e non il contrario? E Caravaggio? Chi ci assicura che i suoi quadri migliori non dovevano ancora venire se la vita dissoluta che conduceva non ce lo avesse tolto tanto presto. Non lo sapremo mai, certo. Ma non possiamo nemmeno giurare che una diagnosi e una cura adeguata gli avrebbero allungato la vita al costo della genialità.
La sofferenza è spesso una spinta a trovare in sé risorse inaspettate e fonti di creatività che sembrano inesauribili, una volta scoperte. A volte, però, e lo dico per esperienza, finisce per diventare paralizzante, bloccando non solo le energie vitali e l’azione nel mondo reale, ma anche le spinte creative. E credetemi: non c’è niente di più doloroso di una creatività che si blocca. E come quell’incubo in cui ci si trova in pericolo, si vorrebbe urlare e si prova anche a farlo, ma non esce la voce nonostante tutta l’energia che ci si mette.
Normalmente sarei per il libero arbitrio. Ma in altri campi della medicina è “più facile”: una volta che al paziente hai spiegato tutto, e che hai la certezza che ha capito e che è in grado di decidere per sé, l’ultima decisione sulle cure è e deve essere la sua. La malattia mentale, invece, è diversa dalle altre. E’ più subdola. Non c’è insight, coscienza di malattia, col risultato che più stai male e meno ti rendi conto di aver bisogno di aiuto. Così, non solo non lo chiedi, ma allontani, e con violenza anche, tutti quelli che a tuo dire cercano di importi qualcosa di cui non senti il bisogno.

Che fare dunque in presenza di un malato creativo? Considerarlo un malato da curare, comunque. O pensare a preservare anche l’artista? Malato o meno Andreoli non sembra così propenso a scindere l’uomo dall’artista. «Io credo che di un uomo bisogni sempre mettere insieme la vita e le opere», dice a proposito di Ilario Fioravanti.

«Quando ammiro un’opera d’arte, una scultura, penso sempre al suo autore e cerco di immaginare in quale modo egli si sia rappresentato o che cosa abbia voluto raccontare di sé. Di fronte alle crete di Ilario Fioravanti – scrive nella prefazione al libro a lui dedicato – sono stato affascinato oltre che dall’opera proprio dall’artista, un’attrazione che ha coinciso con la voglia di poterlo incontrare. Nel maggio 2009 è nato un legame straordinario con quest’uomo fragile, una fragilità di cui lui stesso non fa mistero, come capita agli uomini in cui vi è la consapevolezza e la gratitudine verso la propria natura creativa. Subito ho guardato le sue mani e ho incominciato a osservarle muoversi sulla creta ed è così che le ho viste creare quel mondo che tanto mi aveva colpito.
Da un incontro a un legame, a una relazione che alcune volte mi è parsa persino simbiotica. Ho voluto parlare di quell’incontro, di quel legame e, lontano dall’idea di separare le opere dal suo autore, ho cercato di vedere l’opera e il suo autore, forse il creatore dentro le sue creature. Le mani nella creta è il racconto di questo legame e di questo ‘amore’.
Sono uno psichiatra e ho sempre cercato di entrare dentro i miei pazienti, quasi di farne parte per poterli almeno un poco capire. Da qualche tempo sono catturato dalla ‘follia’ meravigliosa degli artisti perché mi pare siano animati dalla voglia di rifare l’uomo, e di rifare il mondo, quando sia l’uno che l’altro appaiono stanchi o poco attraenti. Il comportamento della creatività, del resto, mi ha riportato agli studi sui bambini di cui in passato mi sono occupato. I grandi artisti come Ilario Fioravanti mi sembrano proprio dei bambini, incapaci di vedere le incrostazioni del mondo con la voglia di costruire un nuovo mondo

E’ molto bella questa definizione di artista, ma non è quello che in fondo fanno anche i malati di mente, i quali non avendo le chiavi per interpretare o interagire col mondo se ne creano uno parallelo che non riesce quasi mai a incontrarsi con quello “normale” se non in pochi e spesso drammatici istanti che si rivelano devastanti per qualcuno?
Il fatto è che finché un artista sta relativamente bene di problemi non ce ne sono. Ma quando la creatività si incontra con la follia vera, cercare di mantenere l’equilibrio tra le due cose è come camminare su un filo sottile a 50 metri d’altezza e la vertigine della bellezza, in questo caso, potrebbe travolgere anche lo psichiatra. Penso che bisognerebbe valutare caso per caso e momento per momento. La mia impressione, però, è che Andreoli cominci a sentirsi un po’ artista anche lui e come tale più propenso a solidarizzare con il lato artistico delle persone, sane o malate che siano. E infatti nella conclusione alla prefazione scrive: «Anche se sono oramai un vecchio psichiatra non ho voglia qui di ricordare tanto ciò che ho fatto, quanto di costruire dei piccoli tasselli per qualche cosa a cui dedicarmi in futuro. Per questo – stanco del mondo ormai fatto – ho desiderato incominciare semplicemente un percorso fra gli uomini che creano. Mi piacerebbe dire che questa è la mia opera prima.»

D’altra parte non sarebbe la prima volta che in parte dissento dal pensiero dello psichiatra Andreoli. Già un suo articolo su Caravaggio mi aveva fatto avanzare più di un dubbio sul modo un po’ troppo semplicistico di presentare il rapporto arte e follia. In questo caso però a farmi rizzare sulla sedia è stato il commento su due celebri colleghi ora scomparsi. Quando, sempre in occasione della presentazione di questo nuovo libro, gli è stato chiesto se si è sentito più vicino al mistico Tobino o al rivoluzionario Basaglia ha risposto che non era entusiasta né dell’uno né dell’altro. «Tobino era un voyeur della follia. – ha detto testualmente – Mentre Basaglia non amava i malati di mente. Io, invece, al malato voglio bene».
Tanto da decidere di non curarlo per continuare a godere della sua arte?

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