Zittire i demoni della mente per dare voce all’arte

Malattia mentale e creatività sono indissolubilmente legati almeno nel credo popolare, ma è indubbio che anche non volendo vederci per forza un rapporto esclusivo, per alcuni artisti del passato quest'associazione ha fatto di sicuro da perno a tutta la vita e la carriera. C'è allora da chiedersi che cosa sarebbe accaduto a questi artisti se a suo tempo fossero stati curati in modo efficace. Che ne sarebbe stato ad esempio di Virginia Woolf se le avessero dato la cura giusta? Avrebbe portato a termine un grande capolavoro o si sarebbe data allo shopping e ai thé con le amiche?

Il New York Times ha cercato di rispondere a questa domanda proponendo due nuovi libri freschi di stampa Madness: a bipolar life di Maya Hornbacher e Poets on Prozac: mental illness, treatment and creative process di Richard M. Berlin . Purtroppo non ne esistono le versioni in italiano, ma se vi piace l'argomento potete leggerli in inglese o tenerli d'occhio perché sicuramente verranno tradotti.

Va da sé che prendendo per vero l'assunto iniziale secondo cui malattia mentale e creatività vanno a braccetto, un trattamento psichiatrico dovrebbe in linea teorica, far perdere all'artista la sua vena creativa facendo recuperare l'uomo al prezzo del genio. Questi due libri in realtà dimostrano l'esatto contrario. In particolare Madness: a bipolar life è frutto dell'esperienza personale dell'autrice che dopo aver passato una vita a lottare con i suoi disturbi ha trovato finalmente i medici in grado di farle la diagnosi giusta e prescriverle la terapia più adatta. Certo, non è stato comunque facile ritrovare un equilibrio e per stessa ammissione di Marya molte difficoltà erano create da lei stessa  che anche dopo la diagnosi di grave disturbo bipolare, ha continuato a sottovalutare il problema e le cure. "Il problema con questa patologia è che quando ti senti molto su con l'umore ti sembra di fare grandi cose e non ti riesce di capire che dopo ogni up c'è una caduta tremenda in cui non si fa più nulla fino alla fase maniacale successiva. E allora il ciclo si ripete in una serie infinita tra ricadute, ospedalizzazioni, farmaci ed elettroshock." Ma proprio riguardo al legame tra creatività e trattamento psichiatrico dice che per lei uno dei primi segni di una nuova e imminente ondata di follia è la difficoltà a scrivere: "la depressione mi zittisce e nella fase maniacale, per quanto le parole mi vengano a fiumi e sembrino tutte particolarmente brillanti, non riesco ad afferrarle. In questi momenti è solo grazie ai farmaci che riesco a intrappolare finalmente le parole sulla pagina."

Lo stesso tipo di considerazioni si trovano anche in Poets on Prozac che raccoglie appunto le testimonianze di 16 poeti magari con problemi e stili artistici molto diversi tra loro e da quelli della Hornbacher, ma pur sempre accomunati dalla stessa sensazione di non essere stati in grado di "afferrare e fermare su carta i pensieri e le parole" fino a che la terapia giusta non cominciava a dare i suoi effetti.
Il fatto è che la malattia mentale può anche essere considerata una parte del ciclo creativo, ma se non trattata o trattata male alla fine fa esaurire ogni ciclo possibile prima che sia giunto al suo compimento. "La depressione ruba le parole – ha detto Liza Porter uno dei poeti citati – La depressione alimenta il silenzio e il silenzio alimenta la depressione." In molti, ma forse a ben guardare in tutti, la malattia è stata più una catastrofe per la mente creativa. "Tradurre una massa informe di pensieri in un prodotto finito è un processo lineare che richiede distacco e senso della prospettiva, quello che ora io chiamo zen chimico del Plaxil (altro farmaco oltre al Prozac a base di fluoxetina) – ha spiegato Andrew Hudgins – Non so se il farmaco ha cambiato il mio modo di scrivere in qualche aspetto fondamentale, ma non credo e comunque è stato una grande invenzione."

D'altra parte anche chi ha cercato nell'alcol una fonte di ispirazione o inconsciamente anche un tentativo di autocura non ha ottenuto grandi risultati e ne è stato anzi rovinato. Il poeta e drammaturgo gallese Dylan Thomas, ad esempio scrisse di aver provato a prendere nota dei suoi stati mentali alterati sotto l'effetto dell'alcol nella speranza che potessero fornirgli nuove idee brillanti per i suoi poemi ma dovette ammettere che non fu mai così: "era impossibile anche solo decifrare la mia calligrafia e mi sono lasciato andare. Un altro mito poetico che mangia la polvere." 0 Post correlati Basta una parola Quanto ci manchi, Charlie Brown! Scrittura democratica A caccia di sponsor per salvare la tomba di Foscolo

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