Scatti di speranza per le donne da Mara Mayer

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In un mondo in cui la comunicazione sembra dover essere portata sempre all'eccesso, anche quando l'argomento affrontato richiederebbe delicatezza e sensibilità, trovare ancora qualcuno come Mara Mayer, fotografa e autrice del libro per immagini "Cancro: prendiamolo di petto ", capace di comunicare senza cercare per forza il clamore del messaggio shock, è cosa rara e quanto mai gradita.

Ed è proprio per l'essere riuscita a rappresentare con la chiarezza e la sensibilità dovute, l'essenza delle problematiche e del vissuto delle donne operate per un tumore al seno, che ho deciso di realizzare come mia prima intervista questo confronto con lei.

Del progetto nell'ambito del quale è stato realizzato il libro ci aveva già parlato Caterina di Blogosfere per "Dolcemente complicate ", a me invece preme sapere come è nata l'idea e come si è trovata a realizzarla, dovendo affrontare da vicino il dolore di tante donne.

L'idea di questa collaborazione nasce dall'incontro con il professor Maurizio Nava, direttore dell'Unità Operativa complessa di chirurgia plastica e ricostruttiva dell'Istituto per lo Studio e la Cura dei Tumori di Milano, un professionista con la P maiuscola, il medico che tutti vorrebbero trovare nel momento del bisogno. È un chirurgo, ma non si limita a intervenire quando c'è da togliere qualcosa e poi via. Lui prepara tutto con cura, interviene nei modi in cui è necessario e pensa sempre al dopo.

Perché il problema con il tumore al seno è proprio il dopo. La donna teme di sapere se è malata o meno non tanto per il tumore in sé, quanto piuttosto per la paura che la terapia le privi di quella parte importante del loro corpo in cui comunemente si identifica la femminilità. E questo è grave se si pensa che molte donne sfuggono i test preventivi solo perché preferiscono non sapere se sono malate.

Scoprirlo in tempo invece è importante perché aumenta la possibilità di guarigione. Lavorare con una persona come il dottor Nava non poteva che essere un piacere. I proventi del libro serviranno a realizzare vari progetti che lui e la sua equipe reputeranno prioritari per migliorare la qualità della vita delle pazienti operate di tumore al seno e a me è bastato questo per essere nelle condizioni giuste per realizzare il lavoro.

Comunicare per o con i malati però non è facile.

Il rischio è sempre quello di mandare messaggi sbagliati, pericolosi o peggio ancora offensivi per chi sta già soffrendo a causa della malattia e le recenti polemiche scoppiate intorno alla campagna anti-anoressia realizzata da Oliviero Toscani, sono solo l'ultimo esempio. Non Le chiedo quindi di dare un giudizio sul collega, ma non Le è capitato di pensare "Io invece l'avrei fatta…"

Penso che ognuno abbia un proprio modo di lavorare e di intendere la propria arte.

Oliviero Toscani preferisce immagini d'effetto, altri non ne ha mai sentito il bisogno in tutta la carriera anche se per i temi affrontati ne avrebbe avuto più volte l'occasione. Per quel che mi riguarda non amo cercare il clamore. Sarà perché sono piuttosto riservata, ma preferisco realizzare immagini che colgano l'essenza delle cose da un particolare, per esempio dallo sguardo, come è accaduto con queste donne, la cui sofferenza patita è tangibile.

Toscani era stato contattato anche per questo progetto con il dottor Nava, ma la sua idea non si è incontrata con quelle dello staff proprio per la ricerca dell'effetto "immagine shock" e alla fine non se ne è fatto più nulla.

Come sono state realizzate le varie foto?

Per lo stesso motivo di cui sopra preferisco non lavorare in studio, con luci e condizioni che sento troppo innaturali. Ho scelto di portare le persone che hanno accettato di essere ritratte all'aperto, dove mi hanno raccontato la loro storia e la malattia se l'avevano avuta.

Alla fine sembrava più una conversazione tra amiche più che un servizio fotografico e con qualcuna sono ancora in contatto. Chiaramente vedevano l'obiettivo, eravamo lì per quello, ma la sensazione è che ad un certo punto non se ne curassero più e gli scatti raccoglievano davvero espressioni naturali.

Nel libro, i ritratti di donne che hanno vissuto l'esperienza del tumore si alternano in rigoroso ordine sparso a donne che invece non l'hanno mai vissuta, ma Lei che le ha conosciute e osservate bene, pensa che ci sia un elemento capace di differenziare le une dalle altre?

No, assolutamente, e proprio qui sta il bello! Abbiamo scelto di rappresentare donne molto anziane e ragazzine poco più che adolescenti per dire che il tumore al seno non guarda in faccia nessuno, può colpire senza distinzione di razza, etnia o fascia d'età.

Tuttavia alla fine il risultato è andato ben oltre le nostre intenzioni iniziali. Si tratta infatti di immagini piene di colore, volti sorridenti, ma di sorrisi e sguardi sempre diversi. Alcuni sono più solari, altri più malinconici e la malattia non c'entra. Dipende dall'individualità di ognuno, quella che nemmeno il cancro può togliere e che dopo un'esperienza del genere semmai né esce rafforzata da una maggiore consapevolezza di sé. Guardando queste persone e parlando con loro si ha l'impressione che dentro abbiano una grande forza.

Quella di chi ha lottato o sta ancora lottando contro un nemico che purtroppo fa ancora tanta paura. Io non l'ho provato sulla mia pelle, ma se dovessi trovarmi in questa situazione penso che non so se ce la farei a dimostrare la stessa forza.

Io invece dico che la tirerebbe fuori. Guardando le immagini del libro ho avuto davvero la sensazione di percepire una storia dietro ogni ritratto, ma non nel senso di capire se effettivamente la persona raffigurata avesse avuto o meno il tumore, ma proprio nella percezione di una forte individualità espressa.

Quell'essere donna ciascuno a modo suo. Credo che se ad ognuna di queste donne prima della malattia fosse stato chiesto "tu ce la faresti", nessuna avrebbe risposto di sì. La malattia, qualunque essa sia è qualcosa che non si desidera né per sé né per gli altri, quella che non ti aspetti . E non c'è motivo di difendersi da qualcosa che non si ha. Quando arriva però ci fa tirare fuori risorse inimmaginate.

C'è quindi un altro messaggio tra le pagine del libro: non lasciatevi condizionare dalla paura di non avere la forza di affrontare un eventuale malattia. La forza ce l'abbiamo tutti e se e quando ne avremo bisogno si tratterà solo di cercarla dentro noi stessi, magari con l'aiuto di un medico o di chi ci è già passato. Un problema alla volta: prima bisogna sapere se si è malati oppure no, e non crediate che vivere nel dubbio sia meno logorante di una certezza negativa.

Da questa almeno c'è speranza di uscirne una volta iniziata la terapia, dal dubbio senza test diagnostici non si guarisce mai.

E per quanto riguarda i prossimi progetti professionali?

Sto aspettando che mi passi quest'influenza per poter fare le vaccinazioni necessarie e andare in Togo dove realizzerò un servizio per un ospedale che si occupa della cura dei malati di AIDS. Anche in questo caso i proventi del mio lavoro serviranno per realizzare progetti a favore di questa popolazione.

E poi ho un mente un altro progetto per la violenza sulle donne, ma questo più in là. Un passo alla volta.

L'aspetto economico e quindi l'utilità sociale di raccogliere proventi per finanziare progetti è indubbia, ma qui non stiamo parlando solo di "arte al servizio della salute", che pure è ben accetta e, anzi, ad averne di più non sarebbe male.  Per lo spirito del blog Arteesalute , vorrei sottolineare che il libro di Mara Mayer è un autentico lavoro artistico che assolve alla sua funzione di "comunicare un messaggio" e di "rappresentare la malattia" non tanto nel suo aspetto più evidente e crudo (il sintomo), ma in quello che va oltre e che in fondo conta molto di più: la percezione e il carico emozionale di chi con quel sintomo deve farci i conti.

Conto quindi di poter ospitare presto Mara Mayer su questo blog.