180 libera tutti? L’altra faccia della Legge Basaglia

Aria di festa nel mondo della psichiatria di questi tempi. Tante luci e poche ombre per ricordare al mondo che noi siamo stati i primi a far chiudere qui manicomi-lager che erano la vergogna di una società che volesse dirsi civile. Poche ombre dunque, ma ben riassunte dal coro di voci che senza troppo voler fare i guastafeste dicono "indietro non si torna ma andare avanti è un dovere". Troppi questi trent'anni passati ad aspettare "la realizzazione di un sogno che per quanto bello buono e giusto, dati i risultati non ancora soddisfacenti lascia più supporre che si tratti di un'utopia.

Dopo alcune divagazioni sul tema calcio, lascio ai colleghi dello sport di Blogosfere l'onore (e l'onere) della cronaca dell'ultima, sofferta, giornata di campionato, mentre io torno ad occuparmi di arte e salute. E precisamente riprendendo là dove eravamo rimasti: alla Legge 180 sulla chiusura dei manicomi che in questi giorni sta festeggiando un compleanno importante.

Stavolta però do la parola a chi la malattia mentale la vive sulla propria pelle, per esserne affetto direttamente o perché ha coinvolto un proprio familiare o una persona cara. Lo spunto per questa riflessione me l'ha dato il post pubblicato da Daniela Ovadia nel blog Mente e psiche qualche giorno fa, in cui racconta di come, "per un caso del destino si sia trovata, il giorno dopo l'anniversario dei trent'anni di entrata in vigore della Legge Basaglia, a varcare per la prima volta la soglia chiusa a chiave di un reparto psichiatrico di un grande ospedale milanese per andare a trovare un amico senza la protezione del camice, ma nella veste di comune mortale, di persona emotivamente coinvolta che si guarda intorno e che percepisce il dolore e la fatica che accompagna la malattia mentale, anche sul volto di una persona cara." In quel "mondo a parte", Daniela ha trovato qualcosa che non si può nemmeno immaginare se si ascoltano solo le voci di chi, potendo attraversare quella porta a piacimento, in questi giorni si sente solo di festeggiare un evento epocale.

"Di fronte a noi che chiacchieravamo c'era un giovane che fumava, con l'occhio appannato dai farmaci, la voce impastata e la madre vicino: una madre dallo sguardo stanco, che si è scusata perché il figlio ci ha attaccato bottone, stringendoci la mano e presentandosi" scrive la blogger, fermando in un istante che sembra un quadro la situazione degli ospedali psichiatrici oggi. In questa immagine c'è tutto. C'è il dolore di chi guarda consapevole di ciò che sta vivendo, perché anche senza il camice a far da scudo, rimane sempre medico con le sue conoscenze e la sua capacità di osservare il dettaglio, acuita forse proprio dalla mancanza di quella candida protezione. C'è il malato con la sua sofferenza, con le stigmate della malattia e della sua cura, con le sue esigenze di parlare, e molto, o al contrario di non dire nulla. E infine c'è il familiare, con la sua stanchezza, l'aspetto segnato da un invecchiamento precoce e il bisogno costante di scusarsi e di scusare per il disagio arrecato dal proprio congiunto.  Last but not least direbbero gli inglesi, ultimo ma non meno importante, anche se oggi, grazie alla Basaglia, l'impressione è che sia proprio così.

Lo dimostra la lettera (vedi immagine a fianco) scritta dalla madre di uno schizofrenico e pubblicata qualche giorno fa nella rubrica di Concita De Gregorio su "D" di Repubblica che viene citato anche nel post. Ed è infatti su questa lettera, tornata in mente proprio lì, in quella condizione particolare, che si concentrano le riflessioni di Daniela Ovadia. "È una lettera molto sentita e sofferta, che non mi permetterei mai di contestare." scrive ricordando che l'autrice ha fondato un'associazione di familiari la quale, contrariamente ad altre, si batte per una revisione della legge 180 e per rendere possibile la cura coatta del paziente recalcitrante. Ma lei, "in quel reparto chiuso a chiave, dove per uscire bisogna chiedere all'infermiere di venire ad aprire la porta", non ha potuto "fare a meno di pensare a Basaglia e alla profonda umanità del suo pensiero: anche quei malati lì intorno sono persone, sono pazienti che vanno rispettati in quanto tali e che hanno gli stessi diritti di tutti gli altri. Anche loro hanno diritto di dire ciò che pensano della loro malattia, delle cure che vengono loro somministrate e del destino che viene loro riservato."

Vanno dunque rispettati e "aiutati a ritornare alla vita civile, in mezzo a noi." Ma è sempre lì, in quel preciso momento, che Ovadia riconosce come quel "bel pensiero si era manifestato in tutta la sua difficoltà e anche, per certi versi, nella sua carica utopica. In quel reparto eravamo chiusi tutti insieme, malati e sani, e la chiave l'avevano i medici e gli infermieri. Mi pareva una metafora molto concreta di quanto diceva Basaglia, e anche, in un certo senso, di quanto racconta la lettera su D."

A questo punto quindi il succo del discorso della lettera di D, "la libertà del malato psichiatrico è diventata la prigione della sua famiglia" più che un'affermazione dovrebbe diventare una domanda. La domanda delle domande, quella che tutti dovremmo porci. Possibile che la Legge Basaglia sia solo una corda che lega insieme tutti, pazienti familiari e anche medici e che allungando il tratto disponibile a uno per muoversi si riduca automaticamente quello degli altri? Possibile che non ci sia un'alternativa se non proprio la possibilità di eliminare completamente la malattia?

In questo quindi mi trovo completamente d'accordo con Daniela quando dice che "è dovere della società civile (ovvero di ciascuno per il proprio ruolo) far sì che i malati di mente possano essere liberi senza che ciò significhi la prigione dei loro familiari" perché solo con uno sforzo congiunto anche da parte di chi pensa che la cosa non lo riguardi, si riuscirà davvero a tagliare quella corda che rende di fatto la Legge Basaglia ancora un'utopia a distanza di trent'anni.

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