Il coraggio in una rosa dipinta

«Ci vuole più coraggio a dipingere una rosa che ad affrontare una divisione corazzata.»
Elsa Morante, scrittrice

Lo ha detto nel 1965, in occasione della presentazione alla prima mostra personale di Bice Brichetto, “Dedica dell’artista: a G. Ajmone Amico e Maestro” presso la Galleria d’Arte Santa Croce a Firenze in risposta a quanti accusavano l’artista di dipingere “solo soggetti umili” .

Per varie ragioni, che credo giuste, io da gran tempo ho promesso risolutamente a me stessa (quasi un voto) di non scrivere mai prefazioni per nessuna mostra di pittura al mondo. Solo nella presente occasione, ho sentito come, astenendomi, avrei peccato peggio che non infrangendo per una volta il mio voto. E questa sarà, però, la prima e l’ultima volta; alla prossima, non potrei perdonarmi più per nessun motivo, e finirei magari dannata. Intanto, mi piacerebbe di far capire qui perché io credo che mi sarà rimessa quest’unica infrazione.
Bisogna dire che io desideravo e aspettavo questa mostra da anni. È un fatto che Bice Brichetto, sebbene dipinga da sempre, non s’era mal lasciata indurre a esporre in pubblico i suoi quadri: tanto severo e irraggiungibile le appariva il paragone dell’arte. E oramai questo suo rigore, mentre testimoniava la qualità del suo impegno, amareggiava però la coscienza di chi visitava il suo studio. Sembrava, insomma, un’ingiustizia, non far partecipi tutti gli altri di una simile esperienza di lavoro e di grazia.
Lavoro e grazia: ecco una coppia davvero invidiabile, e che raramente si concede alla frequentazione dei mortali nostri contemporanei. Ma per quei felici (pochissimi), che si degna di frequentare, essa è capace perfino di miracoli.

Per esempio, nella compagnia di questa coppia beata, si può ancora oggi dipingere un quadro col sistema usato da Bice Brichetto, e cioè: disporsi davanti a una tela bianca, coi sette colori naturali della scala e le loro combinazioni; e là umilmente, disperatamente, cercare di tradurre in linguaggio reale visibile quanto il mondo dei sensi offre alla vista; finchè la materia comune e superficiale della tela non si trasformi nella intimità preziosa, tenera e parlante della vita unica e indivisibile.

La quale di momento in momento (momenti che possono significare epoche per un artista) può offrire i suoi difficili inviti nel modo più consueto: attraverso un paesaggio familiare, per esempio, o un tralcio di vigna; oppure, incurantemente, temerariamente, attraverso una rosa!
Qual è oggi il pittore che avrà il coraggio di dipingere una rosa? Ci vuole più coraggio a dipingere una rosa che ad affrontare una divisione corazzata. E ciò che fa tanta paura non è la inerme, giovane rosa in se stessa; ma, a schermo di lei, i simulacri di tutte le innumerevoli rose defunte che già furono ritratte nel corso della Storia Universale della pittura. I pittori, insomma, si son resi incapaci di guardare all’oggetto presente con attenzione diretta e libera, emancipata da tutte le convenzioni senili, i pregiudizi e le determinazioni sociali. Mentre che la prima condizione di ogni poesia è proprio questa: di saper sempre guardare il mondo col medesimo interesse con cui lo guarderebbe la prima coscienza umana al primo, drammatico Lunedi – della Creazione.
Per restituire al tempo, continuamente, lo splendore originario delle cose, in luogo delle apparenze logorate dall’abitudine.

A questo proposito, mi è caro citare qui l’amato, grande pittore Nicolas De Stäel, che ha detto: Il faut que ce soit donné, donné absolument à propos de tout, un prétexte. Come ogni oggetto che si propone all’artista coraggioso, naturalmente le rose di Bice non sono che un pretesto, per indagare, lungo la trama mitologica della realtà apparente, fin nel suo ordito acceso, sempre vivente e attuale. Allo stesso modo – altro itinerario dalle mitòlogie familiari all’assolutezza dei significati – ecco riproporsi più volte, a Bice, il suo paesaggio nativo delle rive padane. Il quale in momenti successivi si spiega alla pittrice come un ritmo lirico e inquieto; o come una selvatica natura autunnale; oppure come una visione quasi allucinata, dura e mineraria (tanto che questa pittura, oltre ai frequenti richiami all’esempio di Morandi, in certi attimi richiama, appuntò, De Stäel).
lo spero che gli occhi dei visitatori, dopo tante esposizioni di pittura falsa, non siano tanto guasti da non godere la scoperta di questa pittura vera.
Elsa Morante
(1965)

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